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TERMOLI _ Il dramma della Passione del Signore che riviviamo in questi giorni è racconto fondatore e scena madre – letteralmente – per il cristianesimo. Nella storia della sua rappresentazione occidentale si fondono, spesso inestricabilmente, la celebrazione liturgica della fede e la tradizione umanistica dell’arte; l’occidente europeo è segnato indelebilmente da tale rappresentazione. L’apertura espressiva, affettiva, e anche sconfinatamente dialettica, di queste infinite icone della Passione ha il suo legittimo radicamento nella verità teologica di cui il cristianesimo è – giustamente – più geloso: l’incarnazione di Dio precisamente in Gesù di Nazareth. L’archetipo remoto del mito in cui il divino entra ed esce dalla condizione umana, indifferente al suo destino, è già fuori gioco.

Viene anche infranta la presunta nobiltà di ogni mistica della finitezza, che prescrive il disincanto – il distacco, l’indifferenza infine – anche nei confronti dell’amore violato. Giobbe che grida a Dio per i suoi figli non va certo guardato con filosofica sufficienza. Ma dopo la passione di Gesù, neppure con religioso fastidio. Con tutto ciò, non è ancora raggiunta l’assoluta provocazione che Gesù stesso iscrive nella sua passione. Quella alla cui evidenza i discepoli si dovranno arrendere, “toccando” le ferite del Risorto, e riconoscendovi una “marcatura” dell’intimità eterna di Dio che solo il Figlio poteva osare.

La marcatura è tale, infatti, da lasciare letteralmente senza fiato. La rivelazione che il Figlio porta, non risparmiandosi veramente nulla del proprio dolore e del proprio sangue, è che il riscatto di tutti i riscatti possibili – la redenzione appunto – avviene nell’atto stesso che risparmia il sangue dell’uomo, di ogni uomo, chiunque egli sia: amico, nemico, peccatore. Questa è la verità inchiodata sulla croce con Gesù, e consegnata ai discepoli “da fare” in memoria di Lui nel sacramento pasquale che è l’Eucaristia. La fede cristiana la riconosce come verità di Dio, una volta per tutte e per sempre, in favore di tutti gli uomini: di ogni tribù e nazione, lingua e religione. In Gesù, Dio stesso interrompe – a carissimo prezzo – ogni pregiudizio ideologico e ogni deriva anti-umana. Il Figlio si mette di mezzo e attrae interamente fra sé e il Padre la devastazione delle potenze mondane del Male, che distorcono spregiudicatamente la politica e la religione nell’orbita della loro ossessione; Gesù morto e risorto ci libera dall’ossessione del male. L’espressività di ogni immagine artistica rispetto a questo inedito totale che sta nella passione di Gesù, è sempre a un capello dal suo risucchio nella sfera dell’attrazione soggettiva, consapevole o inconsapevole che sia.

È sempre sul ciglio di quel sommovimento di pensieri e di affetti che entrano in gioco sulla linea incandescente di questa differenza. La devozione popolare, come la fissazione artistica – musicale e iconica, letteraria e cinematografica – hanno i loro eccessi, nel bene e nel male. La rigorosa e partecipe pacatezza, a cui il racconto evangelico ha consegnato una volta per tutte e per sempre ciò che deve essere custodito, contiene il discernimento migliore. L’orrore della Passione del Figlio di Dio non deve a tal punto oscurare la scena, da far dimenticare il riscatto che in essa è destinato per la risurrezione di tutti i corpi e le menti feriti dall’eccesso del male. E sarà ripartendo sempre da qui che la fede dei discepoli restituirà l’emozione di quella rivelazione crocifissa alla sua verità luminosa. Sarebbe veramente il colmo della contraddizione se un’icona – fosse anche la più clamorosa – della Passione dovesse indurre la percezione di una divisione irrimediabile – degli umani e degli stessi credenti – sulla quale essa ha posto lo sbarramento di un amore di Dio che contrasta, in primo luogo, proprio ogni sua religiosa legittimazione.

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