LARINO _ Il concetto che la maggioranza dei rappresentanti politici italiani hanno dell’attività malavitosa delle organizzazioni mafiose è davvero singolare. Ognuno di essi si batte il petto, da Berlusconi in giù, e spergiura che nulla hanno mai avuto a che fare con “la malavita”. Ognuno di essi, pensiamo soprattutto a quelli che hanno responsabilità amministrative e posti di comando e decisionali, difendono a spada tratta la propria dignità e il proprio onore. Ma “i politici” non solo i soli. Anche le diverse categorie di professionisti e le caste si comportano allo stesso modo: tutto casa, chiesa e lavoro, per usare un eufemismo antico. Ma anche chi è dipendente pubblico o il lavoratore autonomo o il semplice cittadino.

In sintesi, è in tutta la società italiana, nella sua organizzazione strutturale recente, il degrado culturale e la perdita dei valori morali e civili, che la corruzione e la pratica malavitosa hanno trovato terreno fertile. In tale contesto le organizzazioni malavitose hanno cambiato “pelle” diventando delle ‘holding service’, sostituendosi alle buone pratiche, relegando la violenza e le armi nei casi estremi di necessità: quando magari c’è da ricordare a taluni, singoli o gruppi, le regole mafiose. Il “concetto mafioso” dei clan è semplice: “noi facciamo il lavoro sporco e puntiamo all’arricchimento per poter condizionare, con la disponibilità di ingenti capitali, tutti i livelli della società. Voi chiudete gli occhi e comportatevi da bravi figli.

Utilizzate tutte le leve che volete per mantenere a galla lo ‘status’ conquistato – qualsiasi esso sia – ma, anche senza accorgervene se volete, non dateci fastidio”. Per lo più il senso è questo. E’ quello che nel libro “I Gattopardi”, presentato a Larino nei giorni scorsi in un convegno organizzato dal Centro Sociale Il Melograno, il magistrato Raffaele Cantone, autore, opportunamente sintetizza nel “fattore C” e cioè: convivenza, connivenza e convenienza, tre parole chiavi che declinano l’evoluzione del concetto mafioso. Ma non è il solo che indica il magistrato nel saggio citato quanto una diffusa ‘mentalità dominante che porta a radicalizzare il disprezzo per la legalità’. Da nord a sud, nel tessuto industriale, nella grande finanza, negli apparati deviati dello Stato, consapevolmente o inconsciamente ci sono larghissimi strati inquinati da pratiche malavitose in collusione con i poteri mafiosi.

Ma non possiamo fermarci a questa constatazione e ‘salvarci’ la coscienza se non approfondiamo l’analisi del perché si sia così diffuso tale comportamento cosiddetto mafioso. Molto spesso non ce ne accorgiamo ma tutti noi abbiamo un comportamento ‘malavitoso’. Siamo conviventi per esempio con una società moralmente corrotta quando non ci indigniamo sufficientemente davanti al degrado della politica e dei suoi massimi rappresentanti; davanti agli spettacoli tristi delle cronache di queste settimane. Siamo conniventi ad esempio quando non ci indigniamo più davanti alla tristissima conta quotidiana delle morti sui luoghi di lavoro. O quando, ad esempio, percorriamo sistemi e metodi clientelari per addivenire ad un qualsiasi tipo di vantaggio trovando quindi una convenienza nel sistema che pur riteniamo corrotto.

Insomma, si impone per tutti un bagno di grandissima umiltà nel riconoscere che è responsabilità di tutti se una cultura malata si è impossessata della società moderna, sia per coloro che l’hanno teorizzata e coltivata e sia per coloro che passivamente e incosciamente la subiscono. Un argine vero a tutte le forme di illegalità non tollera le mezze misure. Tutta la parte sana della società, che è quella maggioritaria, quella fatta dalle persone semplici che ogni mattina si alzano e vanno a lavoro con stipendi inadeguati, quelle persone che il lavoro l’hanno perso e combattono per riaverlo, quelli che manifestano contro l’assalto ai diritti e alla dignità umana, quelle persone che manifestano contro lo scempio dei territori, tutti coloro che sono al di qua di quel dieci per cento che detiene la ricchezza a scapito dell’altro novanta che è ai limiti della povertà, e molti altri ancora. Ebbene è a questa parte sana che si chiede oggi di trovare le forze per reagire e ritrovare quella fiducia persa per poter contrastare l’oblio di una società senza futuro.

La lettura de “I gattopardi” dal magistrato Raffaele Cantone sia un’occasione di fervida riflessione e riaccenda quel sano principio della partecipazione, l’unica arma disponibile per capire i processi in atto e non consentire ad alcuno di decidere in funzione di interessi di parte e non di quelli rivolti al bene comune. Franco Sorrentino Coordinatore Laboratorio politico PdCI Larino 11 febbraio 2011

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