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Non si vive di solo livore, l’inimicizia non ingrassa. Meglio sarebbe unirsi nel pericolo. Nel corso dei giorni, dei mesi, degli anni, mi sono reso conto che la profonda frattura in seno alla popolazione permane, sempre più insanabile, a testimoniare l’astio di chi vorrebbe il potere contro la baldanza di chi il potere l’ha e non intende mollarlo troppo facilmente.
Così, dalla parte della fazione uscita sonoramente battuta dalle ultime elezioni, si tira avanti masticando critiche velenose, ma difficilmente si pensa di assumere iniziative serie, molto più efficienti delle mazzate verbali. D’altra parte chi comanda se la ride sotto sotto, ben consapevole che le parole, anche le più insolenti, interagiscono a scaricare la rabbia degli avversari. Dico tutto questo mentre considero con crescente preoccupazione l’incedere dell’estate e, con essa, il probabile arrivo di colui che non esiterei a considerare – qualora dovesse riuscire il disegno suo e del compare Peppe – l’ospite più pericoloso mai sbarcato sulle isole.
Personalmente sono della ferma opinione che, se costui dovesse davvero giungere a calpestare il suolo tremitese nonché a navigarne le acque tutto all’intorno, potrebbe essere soltanto l’inizio di quella tragedia, da tempo annunciata, che soprattutto i vecchi saggi paventano con orrore.
Per tali motivi saluterei con entusiasmo l’eventuale iniziativa coraggiosa degli ultimi paladini di libertà, che promuovessero un comitato di resistenza da opporsi alla venuta di colonizzatori africani.
Pensate un po’, il fascismo vagheggiava la nascita di un impero italico ricco di conquiste coloniali nel continente d’Africa. Abbiamo pagato a caro prezzo quel folle sogno: recentemente il nostro governo ha corrisposto alla Libia un consistente capitale a titolo d’indennizzo, che potrebbe non essere definitivo.
Oggi la situazione sta per essere capovolta in favore dei colonizzati di un tempo, che non fanno gran mistero del desiderio d’imporsi come nuovi padroni in un’area del Mediterraneo (il lembo Adriatico che guarda a Sud) d’importanza decisiva a livello strategico. Per fini commerciali e – perché no? – all’occorrenza pure militari.
La storia degli appetiti libici nello specifico è molto lunga. Tuttora irta di misteri molto inquietanti, mai risolti, che hanno risvegliato tuttavia nella popolazione marinara – concretamente intuitiva più che fantasiosa – fondati dubbi, risentimenti, paure.
Già nel 1980 si parlò a lungo di presunte responsabilità libiche in merito all'”incrocio” delle due stragi di Ustica – esplosione in volo di un DC9 Itavia avvenuta il 27 giugno – e quella della bomba alla stazione di Bologna del 2 agosto nello stesso anno.
Il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Carlo Giovanardi, si dimostrò fra i più impegnati a riconoscere in entrambe le tragedie una “matrice” libica, motivata da presunta volontà di ritorsione cruenta contro l’Italia.
Nello specifico, il movente si sarebbe configurato nell’interesse diplomatico del nostro Paese che era sul punto di concludere uno storico trattato con Malta. Quell’isola, mal sopportando di trovarsi ancora nell’area d’influenza di Gheddafi (il suo sbocco sull’altra sponda del Mediterraneo, appunto), se ne sarebbe così bellamente liberata.
L’attentato al DC9 Itavia sarebbe stato un cruento “avvertimento” tuttavia inefficace all’uopo. Cosicché il 2 agosto la bomba di Bologna deflagrò proprio in simultanea con la sottoscrizione a Malta dell’accordo con l’Italia tanto inviso al colonnello, che da quel momento vedeva tramontare la disponibilità di un approdo nella sponda europea.
Dopo quegli eventi, Gheddafi parve intenzionato a compensare la perdita spostando la mira proprio sulle Isole Tremiti. Anche qui si ripetono singolari coincidenze fra le tonanti dichiarazioni del colonnello e le fragorose deflagrazioni dinamitarde.
Nel novembre dell’anno 1987 il colonnello Gheddafi aveva rivendicato alla Libia il diritto di legittima proprietà delle Tremiti per via della deportazione subita da un gruppo di oscuri cittadini libici che nel 1911 furono così costretti a soggiornarvi.
Appena qualche giorno dopo arrivarono le bombe.Due mercenari svizzeri fecero saltare il faro, che si trova in prossimità di Punta del Diavolo, sull’isola di San Domino. Uno dei due attentatori morì nell’esplosione. Il secondo, arrestato e incarcerato, “scomparve” misteriosamente, volatilizzandosi dopo qualche mese di detenzione. Di quell’intrigo – un altro mistero inquietante – non si scoprì alcun particolare. Dell’intero caso non si seppe mai più nulla. Fin d’allora il faro è abbandonato.
Nelle prime ore di un tranquillo mattino, mentre i bagliori dell’aurora pennellavano di un’accesa tinta rosa quel punto indefinibile dove il cielo si tuffa in mare, percorrevo le rocce a strapiombo sulla marina intorno a Punta del Diavolo. Fu allora che vidi un vecchio fiero e malinconico, dall’umido sguardo penetrante volto proprio a quel che rimane della vecchia costruzione accanto al faro. Era lui la vittima principale, che nello scellerato evento dell’esplosione ha perso tutto. Vive tuttora. Una persona veneranda che di cognome fa proprio come l’attuale Sindaco, Calabrese, di nome ‘Menicu (Domenico).
Menicu Calabrese, in quel triste mese di novembre dell’ottantasette, abitava proprio lì. Fin dal 1959 faceva ancora il fanalista. Dentro la piccola casa che fiancheggia il faro viveva da molti anni con i suoi cinque figli. Anche suo padre, suo nonno e il padre di lui praticavano lo stesso mestiere. Tutti erano guardiani del vecchio faro di San Domino.Nelle ore libere curavano all’esterno un orticello coltivato a peperoni e melanzane.
Ancora oggi, di primo mattino, Menicu si dirige verso l’abitazione di un tempo. Sempre là, sul limitare di Punta del Diavolo. Forse nell’aspirazione instancabile di recuperare, fra rifiuti e frantumi, qualche simbolo ancora palpitante dell’armonia, del bello, dell’umanità.
Così, dalla parte della fazione uscita sonoramente battuta dalle ultime elezioni, si tira avanti masticando critiche velenose, ma difficilmente si pensa di assumere iniziative serie, molto più efficienti delle mazzate verbali. D’altra parte chi comanda se la ride sotto sotto, ben consapevole che le parole, anche le più insolenti, interagiscono a scaricare la rabbia degli avversari. Dico tutto questo mentre considero con crescente preoccupazione l’incedere dell’estate e, con essa, il probabile arrivo di colui che non esiterei a considerare – qualora dovesse riuscire il disegno suo e del compare Peppe – l’ospite più pericoloso mai sbarcato sulle isole.
Personalmente sono della ferma opinione che, se costui dovesse davvero giungere a calpestare il suolo tremitese nonché a navigarne le acque tutto all’intorno, potrebbe essere soltanto l’inizio di quella tragedia, da tempo annunciata, che soprattutto i vecchi saggi paventano con orrore.
Per tali motivi saluterei con entusiasmo l’eventuale iniziativa coraggiosa degli ultimi paladini di libertà, che promuovessero un comitato di resistenza da opporsi alla venuta di colonizzatori africani.
Pensate un po’, il fascismo vagheggiava la nascita di un impero italico ricco di conquiste coloniali nel continente d’Africa. Abbiamo pagato a caro prezzo quel folle sogno: recentemente il nostro governo ha corrisposto alla Libia un consistente capitale a titolo d’indennizzo, che potrebbe non essere definitivo.
Oggi la situazione sta per essere capovolta in favore dei colonizzati di un tempo, che non fanno gran mistero del desiderio d’imporsi come nuovi padroni in un’area del Mediterraneo (il lembo Adriatico che guarda a Sud) d’importanza decisiva a livello strategico. Per fini commerciali e – perché no? – all’occorrenza pure militari.
La storia degli appetiti libici nello specifico è molto lunga. Tuttora irta di misteri molto inquietanti, mai risolti, che hanno risvegliato tuttavia nella popolazione marinara – concretamente intuitiva più che fantasiosa – fondati dubbi, risentimenti, paure.
Già nel 1980 si parlò a lungo di presunte responsabilità libiche in merito all'”incrocio” delle due stragi di Ustica – esplosione in volo di un DC9 Itavia avvenuta il 27 giugno – e quella della bomba alla stazione di Bologna del 2 agosto nello stesso anno.
Il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Carlo Giovanardi, si dimostrò fra i più impegnati a riconoscere in entrambe le tragedie una “matrice” libica, motivata da presunta volontà di ritorsione cruenta contro l’Italia.
Nello specifico, il movente si sarebbe configurato nell’interesse diplomatico del nostro Paese che era sul punto di concludere uno storico trattato con Malta. Quell’isola, mal sopportando di trovarsi ancora nell’area d’influenza di Gheddafi (il suo sbocco sull’altra sponda del Mediterraneo, appunto), se ne sarebbe così bellamente liberata.
L’attentato al DC9 Itavia sarebbe stato un cruento “avvertimento” tuttavia inefficace all’uopo. Cosicché il 2 agosto la bomba di Bologna deflagrò proprio in simultanea con la sottoscrizione a Malta dell’accordo con l’Italia tanto inviso al colonnello, che da quel momento vedeva tramontare la disponibilità di un approdo nella sponda europea.
Dopo quegli eventi, Gheddafi parve intenzionato a compensare la perdita spostando la mira proprio sulle Isole Tremiti. Anche qui si ripetono singolari coincidenze fra le tonanti dichiarazioni del colonnello e le fragorose deflagrazioni dinamitarde.
Nel novembre dell’anno 1987 il colonnello Gheddafi aveva rivendicato alla Libia il diritto di legittima proprietà delle Tremiti per via della deportazione subita da un gruppo di oscuri cittadini libici che nel 1911 furono così costretti a soggiornarvi.
Appena qualche giorno dopo arrivarono le bombe.Due mercenari svizzeri fecero saltare il faro, che si trova in prossimità di Punta del Diavolo, sull’isola di San Domino. Uno dei due attentatori morì nell’esplosione. Il secondo, arrestato e incarcerato, “scomparve” misteriosamente, volatilizzandosi dopo qualche mese di detenzione. Di quell’intrigo – un altro mistero inquietante – non si scoprì alcun particolare. Dell’intero caso non si seppe mai più nulla. Fin d’allora il faro è abbandonato.
Nelle prime ore di un tranquillo mattino, mentre i bagliori dell’aurora pennellavano di un’accesa tinta rosa quel punto indefinibile dove il cielo si tuffa in mare, percorrevo le rocce a strapiombo sulla marina intorno a Punta del Diavolo. Fu allora che vidi un vecchio fiero e malinconico, dall’umido sguardo penetrante volto proprio a quel che rimane della vecchia costruzione accanto al faro. Era lui la vittima principale, che nello scellerato evento dell’esplosione ha perso tutto. Vive tuttora. Una persona veneranda che di cognome fa proprio come l’attuale Sindaco, Calabrese, di nome ‘Menicu (Domenico).
Menicu Calabrese, in quel triste mese di novembre dell’ottantasette, abitava proprio lì. Fin dal 1959 faceva ancora il fanalista. Dentro la piccola casa che fiancheggia il faro viveva da molti anni con i suoi cinque figli. Anche suo padre, suo nonno e il padre di lui praticavano lo stesso mestiere. Tutti erano guardiani del vecchio faro di San Domino.Nelle ore libere curavano all’esterno un orticello coltivato a peperoni e melanzane.
Ancora oggi, di primo mattino, Menicu si dirige verso l’abitazione di un tempo. Sempre là, sul limitare di Punta del Diavolo. Forse nell’aspirazione instancabile di recuperare, fra rifiuti e frantumi, qualche simbolo ancora palpitante dell’armonia, del bello, dell’umanità.
PROVOCAZIONE, UNA PAROLACCIA
Non pare attinente parlare di PROVOCAZIONE, nella diatriba di Pianosa.
Adesso spuntano i difensori delle cause perse, a gabellare la minacciata cessione di parte del territorio nazionale a pretendenti stranieri come semplice provocazione.
Mi permetterei di osservare: fra provocazione e ricatto, talvolta il confine è labile.
Oramai PROVOCAZIONE è divenuto uno dei vocaboli più abusati. Troppi ne fanno amplissimo (e sciocco) impiego. E’ davvero molto comodo per quelli che cercano di riparare nella spiegazione pretestuosa: “ma la mia era solo una provocazione…”. Come dire che si voleva solo scherzare. Alla fine saresti ancora tu quello che non capisce.
A mio modesto parere, bisognerebbe convincersi che PROVOCAZIONE è una parolaccia, nel caso più benevolo una sciocchezza, nella fattispecie peggiore un atto esecrabile. Non a caso, nelle sentenze giudiziarie, diviene un’attenuante se il colpevole di un delitto l’ha subita, mentre si configura come aggravante se un eventuale trasgressore ne è protagonista al fine di agevolare determinate azioni.
NARRAZIONE NITIDA
Al di là dell’interesse presentato dall’articolo su un piano analitico mirato a codificare su scala etica l’esistenza, devo ammettere senza remore di carattere romantico che queste considerazioni esibiscono una qualità dove i singoli valori – cronaca, documenti, dati, storia, valutazione, ma soprattutto narrazione – si combinano con incontestabile carattere di avvincente nitidezza.
Malgrado la consapevolezza storica cui cerchiamo di obbedire, credo che tutti noi – onesti amanti delle Tremiti – restiamo ancora fra gli ostinati accertatori del messaggio mentale quale segno distintivo non tanto della personalità individua, quanto dell’impronta morale che identifica una determinata ideazione.
IL GIURAMENTO DI FEDELTA’ ALL’ITALIA
Giuseppe Calabrese, ornato con la fascia tricolore, ha giurato così:
“Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservare lealmente la Costituzione e le leggi dello Stato, di adempiere ai doveri del mio ufficio nell’interesse dell’amministrazione per il pubblico bene”.
Certo non intendeva la Repubblica libica. Quindi stiamo tranquilli. Nessun pericolo!
BUONI DISCORSI E AZIONI RETTE
Chi opera in nome della cittadinanza faccia buoni discorsi e agisca sempre con giustizia né prenda decisioni storte per la comunità che lo ha eletto.