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TERMOLI – Il progetto “Granmanze”, come è dato sapere, dai documenti disponibili si basa sulla costruzione di una struttura recettiva per un totale di 12.000 bovini. Accoglie vitelline di 15 giorni circa, completa lo svezzamento, implementa programmi di accrescimento razionale portando le vitelle allo stato di manze, le ingravida con tecniche di fecondazione artificiale e di embryo transfer, provvede a portare gli animali in gravidanza avanzata e a circa 30 giorni dal parto le trasferisce agli allevamenti produttori di latte. Rappresenta in pratica una presa in carico e cura delle vitelline che riguadagnano gli allevamenti di origine allo stadio di manza gravida pronta a partorire. L’organizzazione di una struttura siffatta dovrà prevedere per la popolazione bovina una suddivisione in almeno 10 gruppi compatibili per età, per esigenze alimentari e per stadio produttivo (svezzamento, fasi di accrescimento, fasi legate alla sfera riproduttiva delle manze ecc.).

Si tratta di una organizzazione complessa, capace di liberare gli allevamenti di origine da strutture, infrastrutture, competenze e tempo impiegati per la costituzione della rimonta (per i non addetti ai lavori la rimonta è tutto il processo che gli allevatori dedicano alla riproduzione di nuove vacche produttrici di latte all’interno del proprio all’allevamento). Si tratta in pratica di una esternalizzazione di una importante e costosa fase produttiva dell’allevamento del bovino da latte. La produzione della rimonta interna, parcellizzata in singoli allevamenti, ha notevoli costi produttivi. A tale scopo ogni allevamento deve dedicare spazi, strutture, infrastrutture, attrezzature, risorse umane e sanitarie le quali vanno ad incidere pesantemente sul costo finale delle manze gravide e il più delle volte con risultati produttivi e sanitari modesti.

Un progetto come “Granmanze” attraverso l’economia di scala può abbassare notevolmente i costi in capo agli allevatori fornendo animali sani, controllati e produttivi a costi molto inferiori di quelli attuali di mercato, andando infine a incidere favorevolmente sul costo del prodotto finale che è il latte. Tra gli elementi critici portati a corredo da chi vede un rischio per il territorio della nostra regione viene annoverato l’inquinamento da nitrati e più in generale la gestione dei letami. La nostra regione forse più delle altre da molto tempo ha interrotto il connubio complementare e sinergico del sistema allevamento/agricoltura dove i cicli biogeochimici: produzione degli alimenti vegetali per animali e per l’uomo (fieno, cereali, leguminose), letame, concimazione si chiudevano in un sostanziale equilibrio.

La concimazione organica da letame si integrava strettamente con il terreno conseguendo bilanci energetici sostanzialmente in equilibrio. Le macromolecole umatiche resistenti al dilavamento e all’erosione erano un baluardo contro i fenomeni di desertificazione attualmente sempre più evidenti. Con la scomparsa dell’allevamento le produzioni agricole della nostra steppa collinare si sono sempre più orientate verso sistemi monoculturali ritenuti maggiormente redditizi che prevedono le coltivazioni poliennali del grano duro occasionalmente intervallate con il girasole. Ma tali sistemi richiedono grandi quantità d’impiego di concimi chimici a base di fosforo e azoto caratterizzati da alta instabilità (evaporazione, dilavamento) e che sono ritenuti responsabili dell’effetto serra (evaporazione), della eutrofizzazione (ipertrofizzazione) delle acque che si concretizza con il fenomeno delle maree rosse (dilavamento) e della desertificazione. Le colture come le leguminose tradizionalmente fissatrici di azoto, ricche di proteine e ritenute nobili per l’allevamento hanno conservato un posto decisamente residuale nella nostra agricoltura. Come un progetto tipo “Granmanze” può trasformarsi in un occasione per le comunità locali basso molisane?

Si ritiene che la risposta alla domanda risiede nell’integrazione del progetto in questione con le produzioni e le realtà agricole locali, riproponendo in chiave moderna il connubio sinergico e integrato allevamento/agricoltura. A questo proposito si presta in maniera fattiva il Piano di Sviluppo Rurale 2014-2020 il quale come è noto, insieme ai requisiti della condizionalità, promuove, attraverso interessanti incentivi, lo sviluppo delle c.d. catene corte. Cioè il reperimento delle materie prime vicino ai siti di produzione, per indurre al risparmio energetico e alla valorizzazione e tracciabilità delle risorse locali. Nel caso in questione si ritiene che la chiave di volta deve essere ricercata attraverso la stipulazione di “contratti d’area” tesi a privilegiare il reperimento degli alimenti per gli animali direttamente dalle aziende agricole locali. Ecco che si restaurano gli avvicendamenti con le leguminose. Ecco che si possono in tal modo instaurare filiere integrate (mulino, mangimificio ecc). Con accorgimenti drenanti e canalizzazioni il nuovo insediamento dovrà impegnarsi a recuperare tutti gli effluenti, i quali non devono essere considerati rifiuti, ma preziosi prodotti intermedi da trattare in centrali dedicate per la formazione del biogas, (si coglie l’occasione per sottolineare che la produzione del biogas si ottiene con la fermentazione controllata dei letami e non con la loro combustione come più volte è stato scritto) il compost residuale opportunamente trattato in opifici dedicati, potrà essere confezionato, integrato con eventuali correttori secondo le richieste del mercato (esigenze dei terreni) e reso compatibile con lo spargimento di precisione nelle stesse aziende fornitrici di alimenti.

Con tale scenario il cerchio si chiude in equilibrio rivalorizzando i terreni e costituendo un indotto diversificato e prezioso per il reddito e l’occupazione delle nostre comunità. Come possono usufruirne gli allevatori produttori di latte locali? Liberando risorse affidando le loro vitelle al nuovo insediamento in maniera da incrementare il numero di capi da latte in produzione o reinvestendo le risorse liberate in piccoli e medi impianti di trasformazione casearia costituendo un distretto di produzione di qualità (culla di qualità) che può trovare nella grossa impresa di gestione del centro manze, un interlocutore per il decollo nazionale, comunitario e internazionale dei nostri prodotti tipici caseari lasciati attualmente all’improvvisazione, alla parcellizzazione e all’isolamento. In conclusione si ritiene che l’iniziativa può essere accolta in maniera propositiva rendendo appetibile attraverso “contratti d’area” l’impiego delle risorse agricole locali (alimenti per animali) rendendo reale e compatibile lo sviluppo di un sistema che da un lato riporti il settore agricolo verso equilibri più consoni con la sostenibilità (avvicendamenti colturali, concimazione organica, incremento dei redditi) dall’altro creando un indotto che produce lavoro, costituito da piccole aziende (commerciali, molitorie, mangimistiche, energetiche, trattamento e produzione di concimi organici, erogatori di servizi integrati). Non bisogna sottovalutare, infine, l’occasione che si presenta per le nostre produzioni casearie parcellizzate nel territorio e limitate esclusivamente nel mercato locale.

Nicola Ciarallo, medico veterinario