
Per capire meglio questa tradizione è utile fare un breve excursus storico: l’utilizzo di animali per scopi di competizione era diffuso sia nell’antica Grecia che nel mondo romano, quando ad essere in pericolo non era solo il cavallo od il bue ma anche il cavaliere e lo spettatore che assisteva alla gara. Lo sport era talmente popolare da essere inserito nei Giochi Olimpici ed in quelli Panellenici. La corsa dei carri, così come la conosciamo ora, è addirittura antecedente ai romani: faceva parte delle feste etrusche ed erano organizzate per ricordare le persone care che venivano a mancare, assumendo un significato sacrale. Nel corso dei secoli l’impronta religiosa si è solo trasformata, passando da commemorazione per i defunti ad omaggio del Santo, come racconta la storia di San Martino in Pensilis che omaggia il suo San Leo dedicandogli la corsa.
Nonostante il divieto di svolgere la manifestazione, le città di San Martino, Portocannone ed Ururi hanno dato prova di grande impegno e solidarietà organizzando una fiaccolata in difesa della tradizione e decidendo di percorrere, a piedi, il tragitto della Carrese che si sarebbe dovuta svolgere ieri pomeriggio. Guardarla e cercare di capire che per queste popolazioni è un questione di vita, che non ci rinuncerebbero mai nemmeno sotto tortura, risulta difficile agli occhi di una persona che non la vive tutto l’anno e che la considera come “una barbaria, una tortura” di animali che, per loro natura, non sarebbero portati ad effettuare un tragitto costellato di buche ed asfalto.
Personalmente non ho mai assistito alla Carrese, ma subito dopo il comunicato che annunciava la sospensione della corsa, mi sono recata nelle masserie di San Martino in Pensilis che ospitano le stalle e gli animali posti sotto sequestro per vedere cosa succede. Il clima che si respira non è dei migliori vista la rabbia e la tristezza per la decisione del Tribunale, ma a parte questo l’accoglienza è stata calorosa: da subito sono stata accerchiata dalle persone che si dedicano ai buoi ed ai cavalli e mi hanno assicurato che sono trattati “da re”. Mi hanno spiegato che il loro è un “impegno che dura tutto l’anno” e che gli animali “sono trattati meglio delle mogli”. Dopo aver parlato con loro ed aver posto un po’ di domande sulle origini storiche di questa tradizione ho chiesto se potessi vedere gli animali. Non ho avuto neanche il tempo di terminare la domanda che ero già nelle stalle dei cavalli: in ognuna di esse, accanto ai quadrupedi, c’erano i cavalieri che se ne prendono cura, impegnati nelle faccende giornaliere di pulizia della stalla e cura di criniera e manto. I buoi, invece, si trovano all’interno di un grande recinto, liberi di correre, mangiare e guardare quello che gli accade intorno con la curiosità tipica di questa razza. In inverno e di notte anche i buoi trovano riparo all’interno di un grande edificio. Durante la visita ho toccato con mano la fatica, l’impegno e la dedizione nel curare questi animali, nel difendere le proprie radici e la cultura.
Fermo restando che la decisione spetta al Tribunale e che sarebbe forse auspicabile modificare alcune modalità di gara, nel bene o nel male è una tradizione che permette alle città nella quali si svolge di esporsi, farsi conoscere e pone l’attenzione delle persone su una Regione a molti sconosciuta quale il Molise, attraendo ogni anno migliaia di turisti.