Tale e quale l’Imperatore sul suo trono: sempre la figura di Dio. E perciò noi tra gli stenti e poche croste di pane, eravamo tranquilli, senza paure, sotto l’ala del Padre, mi spiego? Adesso siamo tutti disperati, inseguiti come Caino, non tanto perché abbiamo ucciso Abele, ma perché abbiamo perduto il Padre”. Sensazione e non solo, più andiamo avanti e la percezione diventa “reale” di una società che ha perso il riferimento al Padre e ai padri. Questo, però, non dice tutto. C’è voglia di un ritorno alla figura del padre perché non ne possiamo fare a meno. Fanno senz’altro riflettere le parole che Telemaco, figlio di Ulisse dice nei confronti del padre: “Se quello che i mortali desiderano, potesse avverarsi, per prima cosa vorrei il ritorno del padre”. E’ un desiderio più che legittimo, anzi è il desiderio che dovrebbe abbracciare il lavoro di tanti educatori ed educandi. Desiderare il ritorno del padre vuol dire ri-dare al padre il suo posto nella vita familiare e nella società. Questo desiderio, perciò, dovrebbe essere accompagnato almeno da tre elementi: l’azione di un’attenzione educativa, sociale e politica per riavvicinare il padre alla vita dei figli; la necessità di individuare un percorso pedagogico appropriato per un sano sviluppo umano (onde evitare il dramma dei figli eterni adolescenti); infine è necessario tornare a seminare per insegnare la sacralità dei legami familiari: paternità, maternità e coniugalità.
Così sarà possibile creare radici salde per la famiglia, fondanti un sentimento paterno attento al valore della vita. Nella società liquida (Bauman), il padre si sente in difficoltà, quasi fosse sotto scacco nella sua essenziale funzione paterna. Forse la paura di sbagliare o di non essere in grado di… lo rende assente o disimpegnato, lontano. Il perché? Alcuni dicono che i nostri padri non hanno avuto a loro volta un padre che gli insegnasse ad essere tale. Inoltre la società secolarizzata del divorzio facile, e dell’aborto praticabile senza neppure interpellarlo, non gli lascia grandi spazi per esprimersi. Anzi, in genere, questo padre, già insicuro perché nessuno gli ha insegnato come si fa ad esserlo, viene caldamente pregato, dalla cultura sociale dominante, di tacere sui sentimenti, e sulle decisioni che contano per i figli. Parli pure di soldi, organizzi senz’altro un buon livello di vita per la famiglia, ma per il resto, per cortesia, taccia.
Il padre è oggi emotivamente assente, spesso addirittura respinto in una grigia terra di nessuno, da cui non può più guardare, comunicare coi figli, né loro con lui. Quest’assenza, tuttavia, è inaccettabile. Essere padri vuol dire servire la vita e la crescita, comunicare ai figli il senso e il valore della vita, l’importanza fondamentale dell’educazione umana, sociale, culturale e spirituale. Se c’è un’emergenza oggi non la possiamo non identificare nell’ambito educativo dove la figura del padre sembra essere quasi invisibile.
A quasi cinquant’anni del libro di Mitscherlich, sulla società senza padri (1963), oggi assistiamo ad una società dei papà o dei “mammi”. Nel 1997 il poeta e scrittore ceco Milan Kundera, scriveva: “gli uomini si sono papaizzati. Non sono più padri, ma solamente dei papà, ossia dei padri cui manca l’autorità di un padre”. La liturgia del 19 marzo mette al centro la figura paterna di Giuseppe di Nazareth. Uomo giusto, ritenendolo tale il nostro pensiero lo colloca nell’ambito prettamente familiare ed educativo. Dobbiamo pertanto ritenere che Giuseppe fu un padre particolare per Gesù, ricco di umanità e di paternità, ebbe il privilegio di saper educare l’uomo-Dio ed esserne il suo custode. S.Giuseppe mediante l’esercizio della sua paternità è stato chiamato da Dio a servire la persona e la missione di Cristo Gesù. La sua paternità si è espressa concretamente. Paolo VI nel 1966 non esitò a vedere S.Giuseppe come cooperatore dell’incarnazione e della redenzione: “nell’aver fatto della sua vita un servizio, un sacrificio, al mistero dell’incarnazione e alla missione redentrice che vi è congiunta; nell’aver usato dell’autorità legale, che a lui spettava sulla sacra Famiglia, per farle totale dono di sè, della sua vita, del suo lavoro; nell’aver convertito la sua umana vocazione all’amore domestico nella sovrumana oblazione di sè, del suo cuore e di ogni capacità nell’amore posto a servizio del Messia germinato nella sua casa”.
Se ancora sostiamo nel tempo della crisi dei padri, dove paternità e dovere di essere padri sembrano entrare in una densa nube di sconforto, il santo patrono dei padri, il patrono della Chiesa universale, San Giuseppe di Nazareth, ci incoraggia a non demordere soprattutto ricorda ai padri una semplice e fondamentale verità per essere padri c’è bisogno di dono. Esso fa di un uomo un padre quando egli dona il seme della vita, e si prende le responsabilità necessarie a che la vita venga concepita. Quando la nuova vita è iniziata, è ancora attraverso l’azione del dono che il padre si conferma come tale, e dà credibilità e contenuto alla propria figura. Il dono paterno nell’accogliere i figli è prima di tutto dono di sé.