Una dissertazione sull’architettura a Termoli e sul vernacolo termolese.
Metere Amore
Il video di una poesia di Saverio Metere «‘A móre che ‘hè?»

TERMOLI Laureato in architettura a Napoli nel ’69 e da allora residente a Milano. Come mai questa scelta di vita? Almeno per due motivi. Il primo perché ho sposato una milanese. Il secondo, il più importante, perché a quei tempi l’edilizia a Termoli era esclusivo appannaggio di un solo architetto di fiducia dell’allora sindaco. Ho provato più volte a rompere il binomio. Non c’è stato nulla da fare.

Mi appoggiai anche ai pochi studi di tecnici termolesi, ingegnere Crema, geometra Storto. Pur di lavorare bussai anche alla porta dell’ingegner del Comune di allora al quale proposi un progetto su un’area di proprietà dei miei zii in via Duca degli Abruzzi: un edificio di quattro piani con sedici appartamenti. Quando lo stesso onorevole mi rispose “picche”, capii che non tirava aria buona per me. E decisi di non pensarci più. E fu la decisione giusta!
Ma con l’architetto termolese lei ha avuto qualche contrasto?

Nessuno! Ancora oggi sono in ottimi rapporti e su poche cose la pensiamo diversamente. Solo che l’onorevole si fidava solo di lui e quindi non c’era spazio per nessuno. Anche gli altri tecnici, l’architetto Ughetto Trivelli che viveva a Roma, i fratelli Michelangelo e Tonino Crema facevano molta fatica a lavorare a Termoli. In attesa di grossi lavori – che in seguito ci furono – si occupavano di piccoli incarichi dati da privati.

Come mai l’onorevole si fidava solo di lui?

Per un periodo è stato l’unico architetto termolese. Ci siamo laureati entrambi a Napoli. Abbiamo avuto gli stessi professori e la stessa preparazione culturale sia urbanistica che edilizia. Lui, però, era di qualche anno più grande di me. Una decina d’anni. Per cui quando arrivai sulla “piazza”, era già molto “affiatato” con l’onorevole. I concorsi, qualsiasi incarico a carattere edilizio, li vinceva lui..

Ora le faccio una domanda un po’ più specifica. L’Architetto gode della sua stima da un punto di vista tecnico?
Certamente e anche del mio rispetto ed affetto. Gli architetti, però e gli artisti in genere, non tessono quasi mai gli elogi l’uno dell’altro. Spesso si criticano. Ma lo fanno senza cattiveria, è una critica costruttiva che tende solo ad esprimere un proprio parere, che difficilmente corrisponde in quanto sta eseguendo un lavoro che egli stesso farebbe, magari, in modo diverso. Da qui la “critica”. Io dico che avendo avuto in mano le sorti edilizie e urbanistiche della città per tanti anni, avrebbe potuto operare meglio. Ne aveva tutta la preparazione necessaria. Non è tanto per quello che ha fatto ma per ciò che non ha impedito si realizzasse.

Si spieghi meglio.
È proprio durante questo periodo che si è avuto il cosiddetto “sacco di Termoli”. Il nostro piccolo paese è diventato “brutto”. Sono state “cementate” tutte le aree verdi. Colate di cemento armato e migliaia di metri cubi di mattoni hanno ricoperto il centro e le periferie. In Piazza Monumento, nell’area dove era ubicato il Cinema “Arena Lucciole” – l’unico cinema all’aperto, fiore all’occhiello dei Crema e in seguito dei Limongi – fu costruito quell’orribile palazzo di dieci piani, cosiddetto “di Narducci” – dal nome del costruttore. In Via Carlo del Croix, ‘arrète i bbagne”, le uniche aree verdi scomparvero a favore diquell’altro enorme obbrobrio di costruzione ad uso abitativo “a forma di ziggurat” che, insieme al palazzo Cieri e agli altri due scempi di edilizia “moderna”, sovrasta tutta la collina: sul lato sinistro, un enorme edificio costruito ricoprendo i cosiddetti “giardini di donna Berenice”, – un’incantevole macchia di verde ben curata – e a destra quell’altro enorme complesso edilizio con accesso da via Gabriele Pepe.

È un elenco molto triste di edifici che forse potevano essere costruiti altrove?
Certamente! Anche perché quelle aree erano già state depredate del verde da precedenti edifici di oltre cinque piani come il cosiddetto “Palazzo dei Maestri” in fondo alla Via Sannitica e quello dei cosiddetti “Mutilati” alla fine di Corso Umberto I / angolo Via Carlo del Croix che, insieme alle costruzioni di Via Fratelli Brigidahanno succhiato l’ultimo verde rimasto. Proprio “da quelle parti, esattamente sul famoso Largo della Crocetta, è stato costruita la chiesa di S. Timoteo: un’enorme costruzione “senza sagrato” (si può costruire una chiesa senza sagrato?!), ma con l’abitazione per il parroco e un piccololocale cinematografico, il Cinema Oddo, munito di un centinaio di posti (sic!). E ancora! In via Mario Milano, di fronte alle poste, a metà degli anni ’50 sono stati costruiti quell’obbrobrio del Palazzo Lops e, quasi di fronte, il Palazzo Macrellino che dà sulla Piazza della Stazione. E poi…tanti altri edifici che ormai fanno parte del tessuto urbano del paese e che sarebbe troppo lungo elencare. Mi riprometto, se avrò tempo e voglia, di fare un “Libro Bianco” con le foto di questi sconci!

Anche il Piano di Sant’Antonio e la Villa Comunale risalgono a questo periodo?

No! La distruzione dei bellissimi giardini – la cosiddetta Villa Comunale – del ”Piano di S. Antonio” e la loro trasformazione a parcheggio, è stato un altro“regalo”…democristiano voluto dal sindaco Di Bitonto che ambiva adibire la piazza per i suoi discorsi alla popolazione dal balcone della sede municipale. Allo stesso periodo risale anche quella “bruttura” di edificio a destra del Municipio, fatto costruire verso la fine degli anni cinquanta; prima scuola, oggi adibito a Curia Vescovile e Archivio Comunale. Questi tre edifici, compresa la nuova Chiesa di S.Antonio, ricoprono tutta la superficie dell’ex Pozzo Dolce che però “si…fregia” anche di quel “moderno” edificio che affaccia sulla cosiddetta “salita del Panfilo”.

Tutti questi interventi era indispensabile farli in questi spazi o si sarebbero potuti fare altrove?
La stessa sede Municipale, con tutti gli uffici, annessi e connessi, se fosse stata edificata in periferia, avrebbe contribuito non poco ad eliminare il traffico del centro. Infine, non si possono tacere gli enormi palazzoni costruiti a sinistra e a destra del Molinello. Per i primi due, ubicati all’inizio della discesa del Molinello, si trattò dello scomputo di una superficie appartenente ai Crema; l’altro, edificato in corrispondenza del viadotto, fu edificato per essere occupato da molti degli impiegati comunali tanto che fu chiamato, ironicamente, “Il Palazzo del Governo”.

Nell’immediata periferia, però, la situazione era migliore?

Capisco la capziosità della tua domanda. Altro che migliore. Un vero disastro! Tutte le aree ad oliveti verso la Madonna delle Grazie, sono state letteralmente depredate del verde e “riempite” di edilizia abitativa. In particolar modo lungo l’Europa 2 una…Muraglia Cinese di edilizia (così è stata definita), ha coperto tutti gli spazi a ridosso della strada a traffico veloce in uscita dal paese.
E si potrebbe continuare ad oltranza citando lo scempio di Rio Vivo dovuto alla legge 765 la cosiddetta Legge Ponte del ’67, definita da qualcuno “La saga del pilastro”, per la moltitudine di edifici in cemento armato che spuntarono in quel periodo dalla sera alla mattina: bastava lasciare un pilastro al piano terreno da dove spuntavano i tondini diferro…e continuare i lavori anche dopo un anno! E ancora. Il Condono Edilizio del 1985 che, anche se emanato per sanare abusi privati, fu appoggiato e gestito da un’Amministrazione compiacente.

Dopo quest’analisi spietata, lei pensa che a Termoli, in tanti anni non si sia salvato niente? Il verde e il tessuto urbano, sia pubblico che privato, sono stati del tutto devastati dalla speculazione edilizia senza alcuna possibilità di riscatto?
Tutto il verde del centro è stato “coperto” da edifici di varia natura. L’ultimo intervento negativo è consistito nella “desertificazione” del Corso Nazionale. Quel poco di verde costituito da alberelli di oleandri è stato estirpato a svantaggio di un nuovo Corso che sembra il Deserto dei Tartari. Per ciò che riguarda il tessuto urbano, l’unico spazio conservato e ben ristrutturato è il Borgo Antico che i termolesi chiamano affettuosamente Paese Vecchio. Il vecchio nucleo ha subìto, non molti anni fa, un intervento di restauro “conservativo”. È stato redatto, un Piano di Conservazione con un Regolamento Edilizio ad hoc, teso alla ristrutturazione delle case, senza aumento delle volumetrie. Sono state operate modifiche interne con l’inserimento di idonei servizi igienici, strutturali e tecnologici. Plauso ad un’amministrazione che molto oculatamente, non si fece prendere la mano dal fare eseguire inutili opere che non fossero indispensabili.

Ma di nuovi interventi neanche l’ombra?
Per il resto, tutto si è bloccato dietro la proposta di far eseguire un passante di collegamento tra il porto e la via Colombo. Ma è solo una strumentalizzazione politica per abbattere l’attuale sindaco. Anche perché il Tunnel rappresenta solo una piccola parte dell’intero progetto che darebbe al Paese una sistemazione urbanistica, più moderna ed efficiente. Infatti, sono previsti: uno spazio pedonalizzato che ricongiungerebbe il Borgo Antico alla parte ottocentesca; un teatro di 800 posti; il parco giochi del Pozzo Dolce; un parcheggio di 600 posti auto; tre nuove piazze; il ripristino dell’antica Villa Comunale. Insomma, una serie di interventi che le altre forze politiche continuano ad ignorare strumentalizzando la negazione del solo Tunnel. In merito a ciò, si possono leggere tutti i miei articoli scritti sull’argomento e riportati nel libro che uscirà a breve dal titolo “Termoli nella stampa locale”. In essi c’è la descrizione, in modo obbiettivo e documentato della storia del Paese dall’anno 2000 ad oggi.

Ed ora parliamo della sua seconda passione e cioè quella di poeta in vernacolo termolese.
Anche questa parte della mia vita, tutto sommato, dipende dalla prima. Ho cominciato a cimentarmi in vernacolo nel 1980. Il mio primo lavoro fu pubblicato due anni dopo. Il tempo mi servì per lo studio e l’approfondimento della fonetica e della grammatica. In un primo momento, dopo aver studiato e letto tutte le poesie dei poeti in vernacolo che mi avevano preceduto, mi resi conto che il mio modo di scrivere doveva essere diverso.

Fu un caro amico milanese, il professor Roberto Poli che mi diede l’occasione diapprofondire il vernacolo. Nella biblioteca Sormani di Milano trovò la “Grammatica delle parlate d’Abruzzo e Molise”, un libro pubblicato nel 1960 e scritto da Ernesto Giammarco, professore di dialettologia presso l’Università di Chieti. Lo studiai attentamente per impadronirmi, oltre che delle regole grammaticali, anche della fonetica. Lo presi come esempio e guida per “riscrivere” finalmente tutte le mie composizioni grammatical correct. Dopo due anni, nel 1982 pubblicai il mio primo libro di poesie in vernacolo dal titolo “Lundáne da’ mazze du’ Castille”.

Come fu accolta questa pubblicazione dagli altri vernacolisti termolesi.
Se ne apprezzò la poetica ma da un punto di vista linguistico fonetico-grammaticale fu praticamente ignorata. I poeti che mi avevano preceduto erano tutti “pezzi da novanta”. Da Perrotta a D’Andrea, ormai scomparsi, da Mariano Del Monte, a Basilico, anche loro passati oggi a miglior vita, da De Fanis allo stesso Nicolino Di Pardo, avevano tutti un modo differente di scrivere e, per lo più, rifacentisi ai precedenti: non c’era alcuna affinità con la grammatica di Giammarco.
Prendiamo ad esempio l‘ “a” muta, una vocale molto importante nel vernacolo termolese. I primi due, spesso e volentieri, usavano il dittongo latino “ae” (la parola “pane” diventava “paene”, certamente di difficile comprensione). Lo stesso vale, per le altre vocali, tranne la “i”, che non è mai muta. Tutti gli altri, Carlo Cappella compreso, ponevano sulle vocali i due puntini tipici della scrittura sassone che non ci appartiene affatto! Anche l’ ”e” muta posta alla fine e spesso nel corpo della parola, veniva trattata allo stesso modo. Non voglio fare una disquisizione grammaticale. Chi volesseapprofondire l’argomento può andare a leggersi la mia prima pubblicazione precedentemente citata.

Il Comune di Termoli come si comportò di fronte a questo problema linguistico? Prese qualche iniziativa?
Non solo non ne prese, ma in una sua pubblicazione di qualche anno più tardi – seguita ad una manifestazione alla quale parteciparono tutti i poeti in vernacolo allora presenti a Termoli – la commissione cultura fece una breve pubblicazione appiattendo la fonetica e la grammatica: le poesie furono trascritte tutte allo stesso modo e cioè seguendo il modo di scrivere dei precedenti (sic!). Fu un errore di una superficialità gravissima! Correva l’anno 2000. Il libricino, si chiamava “I poeti in vernacolo termolese”. Oltre al sottoscritto c’erano: Lino Basilico, Giovanni De Fanis, Mariano Del Monte e Stefano Leone. In seguito a quest’episodio increscioso, proposi all’assessore alla cultura delComune, l’ingegner May, di fare una tavola rotonda per discutere del problema. Parve molto entusiasta. Ma, come spesso succede in questi casi, non se ne fece più nulla.

E oggi com’è la situazione del vernacolo? È cambiato qualcosa da allora?

Non è cambiato nulla, proprio niente! Tutti continuano a scrivere improvvisando e facendo confusione fra fonetica e grammatica. Ogni tanto provo a scuotere gli animi di “colleghi” che scrivono in vernacolo: fanno tutti orecchi da mercante: nessuno si vuol prendere la briga di fare una ricerca seria e onesta sul modo di scrivere in termolese. Carlo Cappella, certamente il più accorto, appassionato e preparato dei vernacolisti termolesi, è l’unico che si è premurato di affrontare l’argomento. Il suo Glossario dei termini termolesi, dal titolo Le Voci Quotidiane – prodotto dal Rotary Club Termoli e col patrocinio del Comune nel dicembre del 1998 – non si pone alcun problema grammaticale. Infatti, nella premessa, dice che ”…il libro è solo il risultato di una ricerca e studio degli aspetti socio economico/culturali del nostro ambiente…una ricerca storica dei detti antichi…Ricognizioni e studi topografici, geologici ed etimologici…che hanno permesso di conoscere il substrato spirituale e civile di un popolo”.

E quindi, qual è la conclusione della disamina di tutto questo?

In conclusione, neanche il Cappella si è avventurato in una ricerca lessico-grammaticale del vernacolo. Nicolino Di Pardo che, secondo me, è il più “interessante” dei poeti in vernacolo, non ha approfondito la grammatica vernacolare. Conosco bene anche tutte le sue poesie. È sempre stato di carattere schivo e quando gli ho chiesto di diffondere un modo di scrivere valido per tutti, mi ha risposto che non ne aveva nessuna voglia. Lui si basava più sulla fonetica, dove prevalgono i dittonghi. Pertanto, senza nulla togliere alle sue bellissime poesie, queste possono solo essere ascoltate perché di ”scritto” c’è poco o niente.

Un’ultima domanda. Tra i giovani vernacolisti, c’è qualcuno che s’impegna in minima parte ad affrontare il problema della grammatica unito a quello della fonetica?
Non mi sembra. Li conosco tutti. Ho scritto circa dieci libri di poesie in vernacolo. Nell’ultimo, dal titolo “35 anni di poesie in vernacolo termolese”, le composizioni portano a lato la traduzione in lingua. Posso asserire che non c’è nessuno che fino ad ora ha fatto meglio di così. Mi scusi l’immodestia! Mi farebbe un gran piacere se qualcuno volesse propormi un modo nuovo, scientifico, corretto grammaticalmente e foneticamente. Mi è stato chiesto più volte di riscrivere correttamente qualche composizione già scritta L’ho invitato, insieme ad altri, a qualche simposio e manifestazione estiva per declamare poesie in vernacolo. Non c’è stato alcun seguito. Nessuno volle rendere oggettivo con un uno scritto quello che aveva recitato: foglietti…pagine scritte a mano… blok-notes trascritti e stropicciati… Niente di serio e definitivo per aprire una discussione sul modo di scrivere. Forse Roberto Cappella e Lucia Marinaro, con un certo futuro impegno, potrebbero darci qualche speranza. Chissà!

Ma successivamente, c’è stato qualche sviluppo in merito? Cioè, un modo di scrivere il vernacolo valido per tutti?
Si, ci sarebbe! Ultimamente sto leggendo la ”Fonetica e la Fonologia della lingua italiana”. Un volumetto scritto da una certa Marina Pucciarelli, docente dell’Università degli Studi di Macerata, Facoltà di Scienze della Formazione. Questo “manualetto” che va sotto il nome di I.P.A. (International Phonetic Alphabet), risolverebbe in modo oggettivo e scientifico tutti i problemi della scrittura vernacolare. Naturalmente il testo è di difficile comprensione e per i soli addetti ai lavori. Scrivere per “pochi” penso che non serva a nessuno. E gli altri? È già così difficile scrivere e far comprendere la poesia, trasferire le proprie sensazioni, figuriamoci se il modo di scrivere si allontanasse maggiormente dalla parola in italiano! Sarebbe veramente incomprensibile.

Qui termina la lunga intervista a Saverio Metere che, prima del ritorno nella sua città di Milano, ci ha voluto chiarire il suo pensiero su “architettura, edilizia ed urbanistica” a Termoli e sul “vernacolo” termolese.

Articolo precedenteVaccini, il Movimento 5 Stelle contrario ad approvazione proposta Pd
Articolo successivoRiparte programmazione con sconti del Cinema Oddo a Termoli
Antonella Salvatore
Giornalista professionista, Direttrice di myTermoli.iT e myNews.iT e collaboratrice AnSa