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ISERNIA _ In tutta questa storia del “Paleolitico” (ibrido linguistico con cui gli isernini amano definire il sito di Isernia La Pineta) sembra che tutti abbiano dimenticato quelli che, negli anni, hanno lavorato perché “il Paleolitico” varcasse la soglia della scoperta casereccia, i confini della tartufata e dell’indigeno Homo aeserniensis e, come si conviene a un Bene dell’Uomo, diffondesse nel mondo la sua vera essenza.

Ma noi non dimentichiamo noi stessi. E ci ringraziamo. Grazie a tutti quelli che, nei trent’anni dalla scoperta che fece copertina su Nature, hanno calcato la mano sul suolo de La Pineta; a quelli che, nonostante tutto, ancora lo fanno. Generazioni di archeologi, ricercatori, studenti che, sordi ai bisbigli di palazzo, ai tintinnanti piani dei demiurghi, ai computi e alle stime, hanno seguito la rotta della scienza, ignari del lessico degli appalti e degli intrighi. Non è boria né iperbole dire che è tutto loro – e di chi ne indirizza la mano – il merito della fama di Isernia La Pineta nel mondo. La gloria di un sito si misura, oltre che dalla sua oggettiva importanza (non serve qui ribadire le mille ragioni che fanno de La Pineta una stella polare nella storia dell’Uomo), dalla diffusione del suo nome: si tratta di un Bene dell’Umanità, non di un prodotto tipico. Provate dunque a contare i libri, i cataloghi di mostre, gli articoli scientifici, le tesi, i documentari che titolano “La Pineta” ma non parlano di beghe da stanza dei bottoni; o a sfogliare i diari di scavo: lì troverete i nomi di chi, dimenticato e innominato, ha fatto “il Paleolitico”.

Archeomolise

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