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TERMOLI _ Uno dei temi che caratterizza il pontificato di Benedetto XVI sul fronte dei rapporti con la cultura contemporanea e con la politica è certamente la rilevanza pubblica di ogni fede religiosa, argomentata insistentemente con riflessioni di carattere filosofico, antropologico ed etico. Scrive nell’ultima Enciclica Caritas in Veritate: “La religione cristiana e le altre religioni possono dare il loro apporto allo sviluppo solo se Dio trova posto anche nella sfera pubblica, con specifico riferimento alle dimensioni culturale, sociale, economica e, in particolare, politica. La Dottrina Sociale della Chiesa è nata per rivendicare questo ‘statuto di cittadinanza’ della religione cristiana. La negazione del diritto a professare pubblicamente la propria religione e ad operare perché le verità della fede informino di sé anche la vita pubblica comporta conseguenze negative sul vero sviluppo. L’esclusione della religione dall’ambito pubblico come, per altro verso, il fondamentalismo religioso, impediscono l’incontro tra le persone e la loro collaborazione per il progresso dell’umanità.
La vita pubblica si impoverisce di motivazioni e la politica assume un volto opprimente e aggressivo. I diritti umani rischiano di non essere rispettati o perché vengono privati del loro fondamento trascendente o perché non viene riconosciuta la libertà personale. Nel laicismo e nel fondamentalismo si perde la possibilità di un dialogo fecondo e di una proficua collaborazione tra la ragione e la fede religiosa”. Il rapporto dialettico modernità-cristianesimo, che ha teorizzato la distinzione tra la verità e la libertà di coscienza e tra fede religiosa e azione politica, ci ha lasciato in eredità la rimozione della religione dalla sfera pubblica della società civile. Il risultato storico di questo processo è la riduzione della religione a fatto privato, senza licenza pubblica.

La modernità non ha saputo o non è riuscita a pensare la rilevanza pubblica della religione, mantenuta nella sua piena identità. Su questa questione si misura oggi la contestazione da tanta parte del pensiero laicista di derivazione illuministico-ottocentesca che vorrebbe relegare ogni dimensione religiosa in un ambito strettamente privato non riconoscendo ad essa alcuna cittadinanza di espressività nell’agone pubblico, in nome della difesa dei diritti di ogni cittadino e di un concetto di tolleranza e di uguaglianza di tutte le espressioni religiose senza privilegio di nessuna, e a tutela della laicità delle strutture e istituzioni statali. Periodicamente, individui singoli o associazioni ricorrono a legislazioni, nazionali o internazionali per eliminare dalla vita pubblica segni, gesti o iniziative proprie di una fede religiosa, perché, sostengono, essere in contrasto con il principio di laicità della realtà statuale e per non offendere o turbare membri di altre religioni. Oggi, dunque, è diffusa l’opinione che in una società democratica e plurale si può dare corretto rapporto tra diritti fondamentali del soggetto e Stato solo a patto di non introdurre in questa relazione altri elementi di riferimento e di mediazione. La religione, in questo contesto, costituirebbe un terzo incomodo, tollerabile solo se ridotto a fatto privato proprio del singolo.

La sfera pubblica è dichiarata neutrale verso tutte le religioni. Alle religioni si chiede e si impone di considerare il loro universalismo come un fatto privato, al massimo interno al loro ambito di influenza. Obbligare i credenti a comportarsi come se Dio non ci fosse e, quindi, a non ricorrere alla corrispondenza tra la razionalità e l’origine ultimamente divina di una determinata prescrizione, è un prezzo troppo alto per vivere in società e toglie certamente qualcosa di positivo alla società. L’uomo della pubblica amministrazione non lascia la sua fede religiosa all’ingresso della sede istituzionale, come non lascia fuori la sua ideologia politica e il suo bagaglio storico-culturale, pur nel rispetto della carta costituzionale che sancisce principi uguali per tutti.

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