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…È ARRIVATO CHI CI PUO’…ILLUMINARE D’IMMENSO!
TERMOLI – Se ne sentiva proprio il bisogno! I vernacolisti termolesi erano tutti angosciati, ansiosi e preoccupati perché non riuscivano più a comporre versi. Dopo un lungo colloquio con la glottologa molisana Elena Varanese, ci ha detto come scrivere in termolese. Bravo! In effetti chi più di lui poteva farlo, avendo ereditato il DNA da Raffaello D’Andrea, che insieme a Giuseppe Perrotta, sono stati i primi grandi, illustri cultori della “termolesità”! Di suo, in verità, non si conosce alcuna pubblicazione in termolese! C’è sempre tempo…

Facciamo un po’ ordine.
Nella mia prima pubblicazione del 1982 “LUNDÁNE DA’ MAZZE DU’ CASTILLE”, avevo fatto una ricerca storiografica conclusasi con l’individuazione del nostro vernacolo come appartenente alla III ZONA, quella Molisano-Abruzzese meridionale con influsso campano. Nel mio ultimo lavoro : “35 ANNI DI POESIE IN VERNACOLO TERMOLESE” – che oltre a 200 poesie in vernacolo ne riportava anche la traduzione in lingua – scrissi: “…(omissis) Termoli ha avuto altri poeti dialettali ma quasi tutti hanno usato una trascrizione fonetica ed una grammatica del tutto personali e in alcuni casi arbitraria… Io ho proposto una facile lettura affidando alla “Grammatica delle parlate d’Abruzzo e Molise” del 1962 di Ernesto Giammarco – professore di Dialettologia presso l’Università di Chieti – il compito d’indicare come scrivere in termolese”.
E ancora: “(omissis)… Volendo fare una brevissima disamina dei dialetti, partendo dalla tekné (modo di scrivere) dei greci, si è giunti – attraverso le opere in dialetto derivanti dalla trasformazione del latino – alle opere dei grandi poeti dialettali italiani. Rileggendo la produzione termolese che va dagli anni ’50 ad oggi, mi sono reso conto che gli autori in vernacolo si sono basati, esclusivamente, sulla produzione dei loro più prossimi predecessori termolesi che non avevano compiuto alcuna ricerca grammaticale. Carlo Cappella, scomparso di recente, è stato l’unico che ha cercato di impostare un discorso linguistico. Però “(omissis)…nel suo glossario “LE VOCI QUOTIDIANE” del 1999, usa ancora la dieresi di origine sassone sulle vocali mute, molto lontana dalla nostra cultura neo-latina; così tutti gli altri! Anche lui subisce l’influenza fonetico-grammaticale del Perrotta e del D’Andrea che hanno usato una grammatica ancora meno aderente e meno comprensibile rispetto alla fonetica (ad es. : il dittongo latino “ae” corrispondente alla “a” muta termolese, come nella parola “pane” tradotta con “paene”).
I contemporanei, anche se dotati di una sincera vena intrisa di ricordi e di immagini poetiche molto profonde e passionali, non hanno mai osato staccarsi da questa linea lessico-grammaticale. Pertanto, anche se la loro produzione è stata sempre apprezzata e sostenuta dalla critica locale, non si sono posti il problema di trascrivere il termolese rifacendosi ad una forma vernacolare codificata e corretta; in una parola: grammaticale”.
Pertanto, caro amico, quello che hai scritto non solo è di difficile attuazione, ma è impossibile e, credimi, anche inutile! Ma chi si metterebbe a scrivere in modo incomprensibile una poesia in vernacolo solo per “addetti ai lavori”? Solo uno che ha del tempo da perdere! Si, perché non sarebbe letto da nessuno altro. È già difficile avvicinarsi ad un brano poetico scritto in lingua, figuriamoci ad uno recitato con una difficile fonetica. La glottologa, alla quale va tutto il nostro rispetto culturale e il merito per la sua ricerca, non avrebbe séguito alcuno; ne’ con la categoria dei muratori né con quella dei contadini che, in verità, non ho compreso perché, secondo te, dovrebbero avere un lessico dialettale diverso. E allora, lo stesso varrebbe per i ferraioli e…i falegnami e…gli impiegati e… i dirigenti, ecc…
Mah! Siamo seri! I dialetti, non sono, non potranno e non dovranno “mai” diventare appannaggio esclusivo delle classi più colte, come tu affermi. Piuttosto il contrario! E cioè dei meno abbienti!
I primi tempi, a chi scriveva in vernacolo, suggerivo di non saltare tutte le vocali. A chi traduceva la parola “pane” con “ pn ”, indicavo le regole fondamentali: che almeno la “e” senza accento nel corpo o alla fine del vocabolo si considerassero “mute”, come in francese. Bacchettavo così, quelli che per forza volevano esprimersi in vernacolo. Oggi sono diventato più tollerante. Ritengo più importante – per i fruitori dilettanti del vernacolo – la “pronuncia” – che è quella che più ci identifica – non la “grammatica”.
È lungo, molto lungo il percorso, amico caro e irto di difficoltà. Io l’ho iniziato tanto tempo fa. Ho letto, mi sono documentato, aggiornato…e poi ho scritto! Anni fa proposi all’assessore alla cultura May, una tavola rotonda per discuterne. Sembrò molto entusiasta…ma non se ne fece più niente; come accade di sovente in politica (sic!). Se riesci ad organizzare qualcosa d’interessante tienimi aggiornato: SARÓ PRESENTE!
Con la solita affettuosa amicizia e stima di sempre.
Saverio Metere