LARINO _ “L’Italia è il paese con il più alto consumo annuo di acqua in bottiglia in Europa ed il terzo nel mondo: 192 litri di acqua minerale procapite, una media nazionale doppia rispetto a quella europea. Nel 2009 abbiamo imbottigliato ben 12,4 miliardi di litri, di cui solo l’8% destinato al mercato estero, per un volume di affari di 2,3 miliardi di euro: l’andamento è in continua ascesa negli ultimi trent’anni.” Questi dati sono pubblici e facilmente rintracciabili su Internet. Con l’aiuto di qualche calcolo, se ne deduce che ciascun italiano spende mediamente 35-40 euro all’anno per acquistare acqua in bottiglia: una famiglia di quattro persone spende, quindi, circa 150 euro all’anno. Considerato che le medie sono come il famoso pollo di Trilussa, ci saranno di sicuro delle zone in Italia, dove si spende molto di più. Alla luce di tali dati, possiamo dire, in concreto, che l’acqua sia un bene pubblico e non una merce?

A dispetto dei referendum, la realtà delle cose indica, senza ombra di dubbio, che pochi italiani si affidano all’acqua del rubinetto per dissetarsi. Una buona parte beve quella in bottiglia: 192 litri ciascuno, consumati all’anno, non sono uno scherzo. I motivi sono facilmente rintracciabili. Non indaghiamo: basta interrogare noi stessi per avere un’idea. Mi chiedo, invece, se chi gestisce questo importante patrimonio per conto della collettività possa accettare tale stato di cose, senza colpo ferire. Non dovrebbe. Ma anche qui, la dura realtà è un’altra. Le “acque private”, quelle in bottiglia, la fanno da padrone nel nostro inconscio mediatico-collettivo: sono reclamizzate in ogni modo e maniera, affidate a grandi campioni di calcio, a noti scalatori o a bellissime fanciulle. Di quelle “pubbliche” spesso ci si riempie la bocca (in senso lato) ma pochissimo si fa per darle il giusto merito prima ed il dovuto valore dopo: fatta eccezione per alcuni arditi che brindano con l’acqua all’uscita dei propri depuratori consortili, in generale la voglia di comunicarne stima e considerazione rasenta lo zero. Non parliamo mica di costose pubblicità e sponsorizzazioni ma di modelli comunicativi molto più semplici ed economici.

Ad esempio: in quante conferenze stampa o congressi, sul banco dei pubblici conferenzieri, ci sono delle brocche di acqua di rubinetto? Quasi sempre campeggiano bottiglie di acqua commerciale, a volte nemmeno prive di etichetta. Ciò a dire che persino nella mente di chi amministra il bene pubblico, l’acqua di rubinetto è di seconda scelta. Come se questo non bastasse, spesso ci si affanna per affossarne ulteriormente il valore, con delle azioni o inerzie che lasciano trasparire lo stato emergenziale, anche psicologico, delle gestioni. Quando ? se l’acqua di casa è carica di cloro già dall’odore o è rossa di ruggine e sporca di terra; se le cronache di colpo riportano notizie di acqua all’Atrazina, ai Trialometani, all’Arsenico, con presenza di Coliformi o altro che nemmeno sai di che si parla, come si reagisce ?

Pensiamo che non è il caso di bere quell’acqua ed è preferibile affidarsi all’altra, in bottiglia, dando piena fiducia a coloro che ti aspettavano da tempo, avendoti bombardato fino a quel momento con una miracolosa pubblicità. Sta di fatto che chi ci dovrebbe tenere avvinghiati al proprio “prodotto”, l’acqua pubblica, subisce passivamente e per certi versi si rende connivente con questo stato di cose. In maniera sorprendente, perché qualunque amministratore di società verrebbe prima esortato dal proprietario a fare un buon prodotto e poi esonerato dall’incarico se non lo difende, con unghie e denti, dalla concorrenza. Insomma, chi oggi crede che il mercato dell’acqua non esista più a seguito dei referendum si sbaglia di grosso. Esiste e si rafforza, giorno per giorno, per via dei continui errori commessi dal proprietario pubblico. Il quale ancora non capisce (o trova comodo non capire) che si primeggia nel settore, non cercando di sopprimere il concorrente commerciale (acqua in bottiglia), ma mettendo in campo delle gestioni, giustamente pubbliche, che abbiano il senso della modernità.

Ovvero afferrando il concetto per cui, in questa nostra società, complessa, “multimediale” da terzo millennio, limitarsi a portare l’acqua nelle città dalle sorgenti di montagna, come i Romani di 2000 anni fa, è equivalente ad infilare la testa sotto la sabbia mentre sopra tutto scorre velocemente. Se poi si preferisce questa strategia da struzzi, cosa si può ottenere ? Nulla di veramente duraturo e niente di utile per la collettività. Di certo, la deriva delle gestioni verso l’agone della politica sarà ineluttabile: con altrettanta certezza e senza ritegno, si completerà la burocratizzazione delle stesse. In definitiva, questo micidiale mix permetterà di confondere i meriti con i demeriti, lasciando alla contingenza le pianificazioni e le scelte. Finché non ci si affranca da queste logiche, sarà ancora lontano l’obbiettivo dell’acqua pubblica.

Claudio Nuonno Segretario Pd Larino

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