San Biagio
SAN MARTINO IN PENSILIS _ Domani 3 febbraio, viene celebrata e si rinnova la tradizionale festa di San Biagio, unica e singolare quanto la Carrese, e che vede, come quest’ultima, celebrare la santità e il cclo della vita e delle stagioni, in un concerto armonico tra uomini e animali, tra i cavalieri e i loro cavalli. Si riscoprono luoghi e antiche atmosfere di un tempo, dove lo stesso tempo veniva scandito con un ritmo diverso e dove ci si affidava a simboli, come nel caso di questa festa, che erano i simboli di sempre: la pietra, la quercia, l’acqua, il cavallo e il pane. Sono gli stessi simboli di una terra antica e sannita che sono stati mantenuti nel culto cristiano che vi ha aggiunto i propri santi e, nel nostro caso la figura leggendaria di San Biagio, come scrive, lo stesso Jacopo da Varazze, autore del famoso libro “La leggenda dei santi”.

Sappiamo che Biagio fu fatto vescovo della città di Sebaste, in Cappadocia, e si ritrovò perseguitato nella grande campagna contro i cristiani ordita dall’imperatore Diocleziano. Egli si rifugiò in una grotta a far vita da Eremita ma fu scoperto e catturato in poco tempo dai romani. Ma la sua santità era oramai diffusa e risaputa tanto che persino gli uccelli, come con san Francesco, lo aiutarono a nutrirsi e parlavano con lui.

Quando fu catturato dai romani Biagio, che era stato già avvertito nella grotta da una apparizione di Nazareno, seguì docilmente e quasi con gioia i soldati imperiali. Anche in carcere continua far miracoli e a dichiarare con forza la sua fede, tanto che il prefetto Agricolao, indispettito lo manda al martirio facendolo prima “scardare” e “pettinare” su tutta la pelle con l’utensile proprio dei cardatori di pecore, per poi lasciarlo morire nel più grande dolore. Da quel momento nell’iconografia cristiana è sempre rappresentato con un pettine in mano, quasi a voler offrire la possibilità di un continuo martirio. Viene raccontato che lo stesso suo sangue raccolto era miracoloso. Alla fine Agricolao, sconfitto, da quella dimostrazione estrema di fede, gli fa rotolare la testa. Così diventa il Santo con il pettine e il protettore dei cardatori. E non è un caso che, nel territorio di San Martino, il suo culto sia nato proprio su un incrocio importante di tratturi della transumanza, dove tra l’altro vi era costruita una piccola chiesa dedicata al suo culto. Già dal 1638 la visita del Vescovo Carracci testimonia la presenza di una cappella dedicata a San Biagio, così come di una cappella vicina dedicata a Santa Colomba.

Il vescovo Tria stesso ci dice, a metà del settecento che “la chiesa di San Biagio, posta passato il fiume Cigno, vicino al fiume Biferno, e distante cinquanta passi, quantunque distrutta, pure sono in piedi alcune suoi muri e, nel tempo della festività di detto santo, a 2 di febbraio, dall’Università di San Martino se ne celebra la festa per nove giorni, con concorso di popolo e ciò anche per conservare la giurisdizione della fiera che anticamente vi si faceva”. Questa fiera cadeva proprio in quell’area tratturale, i cui luoghi diventavano spesso luoghi di scambio di merci e animali. In quello stesso luogo sono stati ritrovati i resti di un’antica villa romana che per dimensioni era enorme e probabilmente era un punto di raccolta e trasformazione di materie prime,a dimostrazione della strategicità di quel posto sancito dalla presenza umana, dagli scambi e dal culto nei secoli. Ma alla fine del settecento e gli inizi dell’ottocento questi pellegrinaggi plausibilmente diventano meno frequenti o scompaiono del tutto. Non conosciamo la ragione di ciò ma alcuni studiosi asseriscono che una delle ragioni fu l’imperversare di bande di briganti che rendevano quei luoghi pericolosi.

È una teoria plausibile anche se non dimostrata. Del resto proprio in quegli anni, secondo ciò che scrive Massullo nella sua storia del Molise, richiamando il “Viaggio nella terra di Molise” del Longano, che proprio in quegli anni c’è una grande deforestazione, lungo le terre del Biferno, per far largo a terreni coltivabili a grano e frumenti. E non è che proprio per questa ragione, avendo perso la sua fisionomia e la sua funzione i pellegrinaggi sia siano affievoliti? Ciò che sappiamo sicuramente è che, fra la fine del diciannovesimo secolo e gli inizi del ‘900, c’è una ripresa del culto di San Biagio, forse rinnovata anche dal fatto che siano stati ritrovati, all’ombra della grande quercia, i resti dell’antica cappella dedicata a San Biagio. Alcuni raccontano che addirittura sia comparso il Santo stesso. Il fatto è che tutto questo ha portato a rinnovare il culto di San Biagio nel nostro paese, anche grazie all’azione positiva di Luca Del Pinto che “reinventò” di fatto la processione dei cavalli che avviene ogni anno proprio il 3 febbraio. Egli, insieme al proprio amico “Ciaurè” ( ) è citato come maggior animatore della festa nei bellissimi sonetti che il grande poeta e medico Domenico Sassi ha dedicato a questa festa. Il Sassi dipinge, con i suoi versi, un affresco straordinario di questa tradizione e di San Martino e ce la racconta così come effettivamente ancora oggi si svolge.

 I cavalli e i cavalieri, al mattino presto vengono radunati da un tamburino e quindi, quando tutti si riuniscono, vanno verso la pietra e la quercia sante, dove fanno tre giri per poi ripartire. Intanto alcuni cittadini devoti distribuiscono le pagnotte benedette, per alleviare il freddo e la fatica del pellegrinaggio. Infine si riparte e si arriva in paese recitando il rosario e con la Croce in testa tenuta saldamente nelle mani di uno dei componenti della famiglia Del Pinto. Il tamburino battente e le giaculatorie, insieme al rumore sordo degli zoccoli di centinaia di cavalli, rendono la processione profonda e coinvolgente per tutti. Vengono infine fatti altri tre giri intorno alla Chiesa Madre e poi, tutti coloro che partecipano baciano la croce di Cristo tenuta saldamente in mano, sino ad allora, da Consalvo Del Pinto.

Un’altra caratteristica di questa festa è che è una specie di prologo al periodo dell’anno dedicato alla preparazione della festa di San Leo. È la prima occasione per far sgambare i cavalli dopo i rigori del freddo rigido dell’inverno. Sono finiti infatti i giorni della merla. Questi cavalli, insieme ai buoi, dovranno sempre più dare il meglio di se stessi per essere pronti il 30 aprile. È l’inizio di una prima fase, più fredda, di circa quaranta giorni, che porta agli altari dedicati a San Giuseppe e, poi, in una seconda fase più primaverile, di altri quaranta giorni circa, che porta d’un fiato fino all’emozione della Carrese. Ma questa è un’altra storia che racconteremo più in là.

Giuseppe Zio

Articolo precedenteIl Pdl ha sbagliato sulla turbogas. Petraroia alza la voce
Articolo successivoMessaggio dal mare su spiaggia a Petacciato. La bottiglia trovata da una termolese. “Che emozione”