TERMOLI _ Le politiche di penetrazione di Fiat nel meridione partono nei primi anni settanta quando i gruppi industriali del Nord decidono di de localizzare. La conflittualità operaia negli stabilimenti padani era molto elevata, l’idea fordista ,che vedeva concentrarsi nel medesimo sito produttivo l’intero ciclo lavorativo viene messa in discussione, gli stessi rapporti sindacali devono essere rivisti, lo sbilanciamento nei rapporti di forza è evidente.

Uno spartiacque in tal senso è rappresentato dalla “Marcia dei quarantamila” nel 1980 a Torino. Le motivazioni che spinsero Fiat auto a decentrare si basarono sul forte sostegno pubblico che i governi dell’epoca posero in essere in merito alle politiche di sviluppo del Mezzogiorno e soprattutto l’assenza di una cultura industriale, l’inesistenza di conflittualità dovuta a ragioni di carattere storico. Sulla base di queste premesse tra il 1969 e il 1980 Fiat crea 10 nuovi stabilimenti in cui il modello insediativo si discosta dal gigantismo industriale che aveva caratterizzato il gruppo nel Nord, gli stabilimenti vengono ubicati in zone distanti dai grandi centri urbani e presentano una dimensione media che accorpa manodopera delle zone circostanti che permettono al management una migliore governabilità delle relazioni industriali da “Generare in loco”.

Il processo di meridionalizzazione si accentua negli anni novanta con gli stabilimenti SATA di Melfi e della FMA di Pratola Serra, ancora una volta il sostegno pubblico genera le premesse per le ragioni allocative, cercando di creare le condizioni per fare da volano di sviluppo nelle aree depresse con alto livello di disoccupazione. Nel 1987 Fiat acquista Alfa Romeo e lo stabilimento Alfasud di Pomigliano. Il clima nelle relazioni industriali in questa fase di start up prevede un abbassamento del costo del lavoro, elevata flessibilità lavorativa e alta produttività. Il “Modello Pomigliano”, tanto discusso giustamente in questo periodo era già stato collaudato in quegli anni con contratti “Specifici” e gestiti da società generate da Fiat per governare in autonomia il potere aziendale, questo passaggio era fondamentale per uscire fuori da quelle logiche concertative in essere negli stabilimenti storici.

La situazione culmina con l’accordo del 1993, un accordo siglato con tutte le sigle sindacali che anticipa quello che accade in questi giorni a Pomigliano: forte intensificazione dei ritmi lavorativi, riduzione delle tutele dei lavoratori. E’ la fabbrica “Fluida”, liquida direbbe Baumann, il paradigma tecnocentrico è di matrice giapponese, della “learn production”, della produzione snella, bassa conflittualità, modello cooperativo alla orientale, con un piccolo inconveniente però, le relazioni all’interno della fabbrica sono gestite ovviamente con un rigido controllo gerarchico dove il “Dominio “ del primato della produzione ha garantito un decennio di subalternità senza conflitto all’interno dei “Prati Verdi”. L’insostenibilità di questa situazione e il superamento del prato verde avviene con lo sciopero dei 21 giorni nel 2004 alla SATA. Dopo quel crocevia Fiat ha cercato costantemente una “via di normalizzazione” anche nello stabilimento di Pomigliano, ex stabilimento Alfasud, residuo di fordismo meridionale e di quella capacità di generare osmosi anche con l’ambiente circostante, ma questa è altra storia.

Le difficoltà incontrate in questo stabilimento risiedono nella storia di AlfaSud e nel modello di fabbrica che rappresentava, un modello fordista ubicato in un grosso agglomerato urbano, con una presenza operaia fortemente sindacalizzata e conflittuale. Infatti mentre negli anni ottanta Fiat implementava quel modello di “Fabbrica Integrata”, pensiamo allo stabilimento di Termoli per esempio, AlfaSud optava per una strategia diametralmente opposta a quella di Fiat, il sapere operaio veniva implementato e valorizzato con una partecipazione piena alla organizzazione del lavoro e sul sapere operaio. Nel momento in cui “regalano” a Fiat Alfasud la storia cambia, le lavorazioni vengono razionalizzate e il sistema di controllo imposto muta radicalmente, gli sforzi del management sono tutti finalizzati ad abbassare una conflittualità operaia mai sopita, il rapporto con il territorio di quella cultura non è casuale.

La storia di questi giorni è un film già visto, sembra che il Mezzogiorno non riesca a sottrarsi da questo paradigma che vede la salvaguardia dei posti di lavoro sacrosanti, la governabilità aziendale un imperativo categorico, l’addomesticamento della forza lavoro in un mutato scenario internazionale sacrificata, scenario dove la competizione globale non la si fa ai paesi post-capitalistici ma ai paesi emergenti con elevato sfruttamento dei Loro lavoratori. Valletta guadagnava venti volte di più un suo dipendente, Marchionne 450 volte in più.

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